Non vuo’ impicciarmene: rende un uomo codardo: un uomo non può rubare, che essa lo accusa; un uomo non può bestemmiare, che essa lo raffrena; un uomo non può giacersi colla moglie del suo vicino, che essa lo denuncia. E’ uno spirito verecondo, incline al rossore, che si ribella nel petto d’un uomo; assiepa un uomo d’ostacoli: mi fece una volta restituire una borsa d’oro che avevo trovato per caso; riduce alla mendicità chiunque la serba, è cacciata dai paesi e dalle città come una cosa pericolosa; ed ogni uomo che vuol viver bene cerca di fidarsi di se stesso e di vivere senza di lei.
Si parla di coscienza, in particolare partiamo da questa citazione shakesperiana per articolare il post di oggi. Coscienza non intesa con il significato filosofico del termine ma nella sua inclinazione etica: l’eterna contrapposizione tra bene e male, la definizione di questi ultimi, le conseguenze dirette ed indirette che hanno sulle scelte dell’uomo.
Tengo a precisare fin da subito che questo blog non funziona a puntate, ma che comunque ci stiamo riallacciando a qualcosa di già scritto. L’ultimo intervento di ieri, per quanto sintetico e contorto, è attinente e comunque mi tocca personalmente. Andando invece più indietro nel tempo troviamo un ragionamento simile, intitolato “Etica e professionalità“.
In particolare, andando ad analizzare gli effetti precedenti al compimento del fatto, si parla di codardia; forse più adeguatamente definibile ansia, secondo gli standard moderni. Già in partenza si ha piena consapevolezza di ciò che si sta per fare, ed è proprio quanto questa azione pianificata si scontra con il proprio codice morale che iniziano a sorgere i problemi. I deboli si fermano a questa fase.
Gli altri invece proseguiranno e attueranno le loro intenzioni, mutando quindi la situazione esterna. Mutamento che irrimediabilmente si rifletterà anche nella loro anima, sempre che ne abbiano una, in modo tale da abbandonare lo stato di paura e far posto ad un’altra emozione ancora peggiore: il rimorso.
Ed è attorno a questo dubbio amletico che l’uomo gira da anni in ricerca di una risposta. Meglio essere attanagliati dai sensi di colpa per aver fatto qualcosa di soggettivamente sbagliato, oppure evitare di fare questa cosa ed essere eterne vittime della morsa del rimpianto per non averci quantomeno provato?
Come sempre ognuno ha le sue idee, e io ho le mie. Prendiamo come assiomatico il fatto che sia impossibile sfuggire da delle scelte, e che quindi di fronte al bivio sia necessario prendere necessariamente una delle due strade e senza neanche perdere troppo tempo a ragionare. Come scritto sopra, in entrambi i casi a livello teorico ci si potrebbe fare male… non ci resta che da applicare un po’ di fanta-statistica per calcolare le probabilità di insuccesso e da valutare gli effetti del possibile impatto negativo.
Da un lato, la prima cosa da considerare è che certi treni non passano due volte, quindi la cosa più probabile sarebbe cogliere l’attimo. Il Carpe diem, che applicato al periodo della gioventù trova la sua massima espressione nella prima strofa della Canzona di Bacco e nel famoso “chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”. Alla possibilità forse pessimistica che non ci possa essere un lieto fine, però, Lorenzo de’ Medici non ci aveva pensato.
E forse, dico forse, non aveva nemmeno tutti i torti. Perché l’etica, non è altro che un castello di sabbia che ci costruiamo e/o ci costruisce la società attorno. Le religioni da sempre abusano del rimorso come mezzo per dimostrare l’esistenza del peccato, annullando di fatto ogni effimero pensiero o desiderio di osare. Ma cosa ne sarebbe di noi se fossimo, in quest’ottica, una scatola vuota?
Niente morale significherebbe niente rimorso, niente rimorso significherebbe nessuna paura di provare e di mettersi in gioco. Il prezzo da pagare è l’anarchia interiore e l’esistere fuori dagli schemi canonici ai quali tutti sono assoggettati. Forse l’essere definiti pazzi ed immaturi.
Adesso sta a voi scegliere tra l’equilibrio che fa soffrire e la spensieratezza che rende felici.